giovedì 11 aprile 2019

[DUE PAROLE] NOI: Il rosso del sangue, il rosso della rivoluzione.

"Ho sempre simpatizzato per gli zombie, hanno un che di rivoluzionario. Rappresentano il popolo solitamente senza idee autonome che a un certo punto, stanco dei soprusi, si ribella. Eravamo noi nel ’68. E ora siamo morti, no? I nostri ideali sono morti, io sono uno zombie. Uso questa idea un po’ particolare e continuo a utilizzarla per fare delle istantanee dell’America, soprattutto del suo cuore profondo, quella che chiamiamo “Middle America”



A dirlo è George Romero, il regista de “L’alba dei morti viventi” per citare solo una delle sue tante e iconiche pellicole. A dirlo è un uomo che negli anni 60 ha visto, insieme alla  sua generazione, il marcio che si espandeva nella società americana. Una società fondata su ideali di Libertà, ma che concretamente è molto più simile alla  casa della famiglia Freelings, in Poltergeist di Tobe Hooper: costruita su un cimitero indiano. Una grande e potente nazione che sembra aver dimenticato le sue radici ed aver ricominciato da capo. Da zero. Ma in fondo sono solo i tempi a cambiare e il Dio del Massacro (prendendo il termine in  prestito dalla commedia di Reza) ha solo assunto nuove forme. Si è, per così dire, mascherato.



Jordan Peele con la t-shirt
della Monkeypaw Production,
da lui fondata nel 2012.
A parlarne non è certo la politica, l’economia. Non lo è la  sociologia o l’etica. A parlarne è ancora una volta la cultura popolare. L’espressione non elitaria, la forma d’espressione che trova il suo massimo nelle Arti. A parlarne è Jordan Peele, un attore comico statunitense di poco conto che però, nel 2017 si reinventa regista e manda nelle sale di tutto il mondo la sua  opera prima: Get Out. Un film dove la società perbenista americana viene messa a ferro e fuoco attraverso il Cinema, la settima arte, e ancora più nello specifico, la Black-Comedy e l’Horror-movie. Un successo tale da valergli un Oscar per la migliore sceneggiatura originale agli Academy Awards del 2018.

Ma veniamo a noi. O più precisamente: Noi ( Us, in originale). 

La storia racconta di Adelaide, una bambina normale che con  la sua famiglia sta passando una serata alle giostre nella baia di Santa Cruz. Peele delinea subito la  rappresentazione sociale del padre, un sempliciotto che preferisce giocare ad “Acchiappa la talpa” con l’entusiasmo di un dodicenne piuttosto che badare a sua figlia nel momento in cui la moglie deve allontanarsi. Nel suo piccolo, il nuovo modello di genitore che la società moderna ha “partorito”. L’inadeguato, l’uomo che magari neanche ha scelto di avere figli, ci si è ritrovato. E come tale, lo mal tollera, cerca l’estraneazione a tal punto dal barattare un po’  di divertimento infantile con il proprio senso di responsabilità, quasi inconsapevolmente. La piccola Adelaide, come da cliché, si allontana ed entra nella giostra degli specchi dove vede qualcosa di sconcertante, che le farà letteralmente perdere il fiato.

Stacco.

Sono passati trent’anni ed Adelaide è adulta. Nei suoi occhi il peso di quel che ha dovuto sopportare nella crescita, di quel qualcosa che ha a lungo combattuto e con il quale ha iniziato a convivere. Intorno a  lei una nuova famiglia, la Sua famiglia. Il marito Gabe, personaggio dallo spiccato humor, e i due figli, Zora e Jason. Una famiglia normale, in vacanza a Santa Cruz (esatto, Santa Cruz).

“Quando punti un dito contro qualcuno, hai tre dita contro di te.”

Questa frase, detta dal figlio più piccolo, Jason, è solo uno dei tanti  spunti di riflessione che Peele inserisce nei dialoghi dei personaggi. 

Ad ogni modo, la storia acquista sempre più suggestione quando Adelide (Lupita Nyong’o) ritorna sul luogo del suo trauma. Qualcosa non va, troppe stranezze, troppe coincidenze. Sempre più tensione fino alla sera quando, a casa, Adelaide svela  al marito ciò che aveva visto nella giostra degli specchi. La luce  salta. Il climax è palpabile e davanti al portone di ingresso compaiono quattro figure (s)conosciute, vestite di rosso. Un rosso acceso come solo il sangue che gronda da una ferita troppo a lungo aperta sa essere. 

“Ma voi chi siete?”

“Siamo Americani.”

Il livello allegorico con il quale Peele mette  in scena personaggi e dirige l’azione è pressoché impeccabile. La fotografia in notturna, estremamente scura e tipicamente carpenteriana, trasmette benissimo il senso di isolamento. Le riprese di giorno, se possibile, risultano ancora più efficaci. In un’eterna citazione a film come “Day of the Dead” dove il ritorno alla realtà, alla  sicurezza che dopo la notte tutto tornerà a posto, viene stroncato. La  realtà c’è, ma non è quella che ti aspettavi, devi accettarlo Adelide. Devi accettarlo spettatore. E più entri in questo vortice, più dimentichi quei  piccoli e forse inutili dettagli, che conducono lo spettatore al plot twist finale, concludendo una trama che, come i film d’altri tempi, non da tutte le spiegazioni, ma crea implicitamente un patto con lo spettatore, un tacito accordo di reciproca comprensione.


[SPOILER]

Il finale. 
Leggendo diverse recensioni e opinioni sul Web sono giunto alla conclusione che sia il punto più critico del film. 
Questo perché viviamo nell’epoca del film che deve spiegare tutto, e Peele questo lo sa bene. Probabilmente il regista ha introdotto lo “spiegone” finale tra Red e Adelide proprio per venire incontro a quel pubblico che, sempre più su vasta scala, non si accontenta di prendere un’opera per il suo messaggio e per il valore interpretativo ma che preferisce sentirsi coccolato, accompagnato, imboccato. Forse per paura di fraintendere, forse per sapere meglio cosa criticare.

Ma pensiamo all’ultima scena prima dei titoli di coda. 

In un film così allegorico non si può non pensare ai significati di una sequenza come quella in cui Adelide acquista coscienza su chi è veramente e guarda con "complicità" il figlio Jason. Ma chi è Adelaide/Red? Ella è la rappresentazione della società nascosta, tanto nascosta da esserlo alla luce del giorno, della fusione dei vecchi valori del “massacro” e di quelli della società capitalistica moderna. E chi è Jason? Il figlio di questi valori, il bambino ingenuo, più libero da preconcetti. Non a caso il legame tra Jason e il suo alter-ego è il più forte, a tratti speculare. E cosa fa Jason quando si rende conto di ciò che è sua madre, di ciò che lo ha prodotto e che nel bene e nel male si curerà sempre di lui? Indossa la sua maschera. Si copre il volto, lo fa come a liberarsi del peso della conoscenza di una terribile verità. Ma come lo fa? Con la maschera di un lupo mannaro. Un mostro. Il prodotto della società. Lo fa come se impugnasse uno scudo ma in verità diventa tanto più simile alla sua controparte malvagia che era fisicamente deturpata. Il vecchio e il nuovo. Il passato e il futuro. Collegati insieme da una catena umana lunga quanto un continente.


[FINE SPOILER]


Siamo tornati al cinema vero. Non a caso sono sempre stati i film comici a raccontare al meglio la società, proprio per la capacità intrinseca di non farsi prendere troppo sul serio. Un esempio su tutti, “La febbre dell’oro” di Chaplin o per essere più contemporanei la filmografia di Adam McKay (La Grande scommessa).

E così l’horror. Così Romero. Così Carpenter. Così Cronenberg. 
Non è un caso che registi capaci e istruiti scelgano questi generi per raccontarsi e raccontare. 

E allora lunga vita al cinema come manifesto di uno sguardo critico a ciò che siamo, che eravamo  e che siamo diventati. Lunga vita a registi come Jordan Peele e  all’orrore che rifuggiamo nella realtà di tutti i giorni, ma che cogliamo nella finzione e che, ogni tanto, ci fa gelare il sangue nelle vene.

domenica 7 aprile 2019

[DUE PAROLE] Dragon Trainer - "How To Train Your Kids"


 

"How to Train your Dragon". Letteralmente: "come addestrare il tuo drago".

Drago...
Una fantasia presente nella maggior parte delle culture e frutto di miti e leggende. Simbolo per il cristianesimo, addirittura, del Male, di Satana in persona.
Drago.
Una creatura serpentina e in grado di incutere timore,  per maestosità e per l'alone di mistero che da sempre lo circonda. Drago....

Ma allora perchè è proprio un drago il protagonista di una saga tanto acclamata? Per il suo fascino forse, per il suo mistero. Forse anche perché i Character Design che si ispirano alle varie razze devono esser stati davvero divertenti da realizzare.

Ad ogni modo, nel 2018, sotto l'ormai assodata casa di produzione americana "Dreamworks" esce finalmente l'atteso seguito della  trilogia cinematografica ispirata al libro di successo per bambini: "How To Train Your Dragon" di Cressida Corwell, in Europa semplificato con "Dragon Trainer".
Molto mi aspettavo personalmente da questo terzo e conclusivo capitolo e molto so di avere ricevuto, ora che posso dire conclusa questa avventura "vichinga".
Forse non proprio quel che mi aspettavo però. Avevo preferito il villain del secondo film, Drago Bludvist, per la potenza del messaggio di critica che faceva passare attraverso le sue terribili azioni. Forse perchè  Hiccup e Sdentato erano ancora nella loro prima fase di  maturazione di "coppia".

Ma la verità è che come bene illustra il terzo capitolo stesso,  ogni cosa lascia il tempo che trova ed ogni rapporto cresce e si sviluppa inesorabilmente, per una ragione o per l'altra. Questo è quel che è arrivato a me, ma sicuramente non l'unico dei tanti messaggi del film. 
In particolare, come in ogni capitolo, il centro della narrazione vede i "Draghi" come archetipo della  Natura e del mondo animale. Una forza che l'uomo non riesce a fare a meno di voler controllare e dominare (in maniera "benigna" come gli abitanti di Berk o crudele  e senza scrupoli come i Signori della Guerra che affollano i mari con le loro flotte).


Come dicevo, ho preferito il crudele Drago Bludvist, del secondo film, ma anche Grimmel, il cacciatore di Draghi di F. Murray Abrham, non se l'è cavata affatto male. Ancora una volta un personaggio che incarna oltre misura una rappresentazione sociale che è sempre esistita: "il cacciatore". Una grande critica a un aspetto terrificante dell'essere umano.

Si, perchè Grimmel, non è un semplice cacciatore. E no, non mi riferisco al fatto che sia uno "sterminatore di Furie Buie" (la razza di Sdentato, per intenderci), ma è un cacciatore che, per usare le parole di Eret: "Caccia per il gusto di cacciare".
Trasforma insomma quella che era una antica pratica di tutti  i popoli che non avevano altro modo di sopravvivere se non quello di uccidere a loro volta, con l'ingegno e la tecnica, in una pratica  narcisista e spietata, un motivo di vanto a discapito di vite innocenti, per il semplice gusto di mostrare il proprio Dominio su chi è considerato inferiore.

Ho apprezzato molto i brevi flashback che hanno "riportato in vita" Stoik, il padre di Hiccup deceduto nel film precedente, ed ho apprezzato molto il concetto di "Mondo Nascosto".
Un mondo incontaminato, separato da quello degli esseri umani. L'unico posto dove i draghi potranno vivere in pace "in attesa che gli uomini imparino ad andare d'accordo". Assolutamente utopistico. Assolutamente stupendo.

[SPOILER]


Ma il messaggio che più mi ha toccato è stato quello del finale. Il passaggio generazionale, spiegato facendo addirittura sposare ed invecchiare il protagonista. Ma perché far invecchiare quello che fino a un momento prima era colui nei quale tutti i bambini e ragazzi si stavano rispecchiando? Perché le immagini da quel momento in poi avrebbero parlato da sole. E mostrando l'ultimo incontro, tra un ormai padre di famiglia, cresciuto raccontando ai figli leggende sui  draghi, ormai svaniti nel loro stesso mistero, e il suo eterno inseparabile compagno vediamo, e a tratti tocchiamo, quel ponte immaginario che collega tutte le generazioni fra loro e fa capire come i valori corretti, buoni, come il rispetto della natura e dell'Altro (per citare Levinas) vadano tramandati, come una leggenda, come un racconto...Perché in fondo è sempre stato così. 

Così come il protagonista aveva convinto il Padre a NON uccidere i Draghi, staccandosi da un insegnamento sbagliato nel primo film, così, l'insegnamento giusto, tramandato, verrà percepito dai figli nel terzo.

[FINE SPOILER]


Questo alla fine è Dragon Trainer, "How to train your Kids", come insegnare valori che non possono non essere assimilati, specie nel difficile periodo che stiamo attraversando, ad una fascia di età ancora giovane e difficilmente in grado di sensibilizzarsi se non attraverso la cultura popolare.

Ed è facendolo così bene, con così tanta magia e fantasia, con gli occhi di un bambino che diventa adulto, che si raggiunge davvero un grande traguardo. 

Si torna davvero a chiedersi quando impareremo ad andare d'accordo...E quando i Draghi, finalmente, potranno tornare a volare con noi in un "Mondo Nuovo". 



Grazie Dragon Trainer.