sabato 28 dicembre 2019

[DUE PAROLE] Il Pinocchio di Garrone


Vorrei parlare di Pinocchio.

Si, vorrei parlare proprio di Pinocchio, ma Pinocchio e basta.
Ho detto abbastanza volte Pinocchio? Forse non abbastanza.
Eppure di "Pinocchi", ora che siamo al termine di questo 2019 , se ne sono visti tanti. Opere teatrali, pellicole cinematografiche, reinterpretazioni fumettistiche e chi più ne ha più ne metta.
Pinocchio è un Classico. Una storia senza tempo, quella del buon Collodi, che al limitar del XIX° secolo scrisse "Le avventure di Pinocchio - Storia di un burattino".
Ma bando alle ciance, perché questa recensione, se di recensione vogliamo parlare, non toccherà il tema dell'opera prima e tanto meno delle successive.
Solo dell'unica, singola rivisitazione, distribuita quest'inverno da 01 Distribution, per la regia di Matteo Garrone (Gomorra, Dogman).


Pinocchio





Dissolvenza del titolo (font graziato/3D effetto oro) su fondo bianco panna, accompagnata da un dolce arpeggio di chitarra a cui seguirà la colonna sonora portante del film firmata da Dario Marianelli (Darkest Hour). Andiamo incontro alla scena di un campo lunghissimo rappresentato da un paesaggio collinare, tipicamente italiano, coperto da una lieve coltre di neve. Sulla collina sta un piccolo villaggio, quello di Mastro Geppetto (Roberto Benigni), un umile falegname povero in canna, intento a raschiare, con gli attrezzi del suo mestiere, gli ultimi residui commestibili di una forma di formaggio.
Dal canto suo, il falegname è un uomo buono, un po' strambo ma volenteroso, che vive solo e tira avanti, anche grazie alla cortesia  dei suoi compaesani. Tira avanti, fino al giorno in cui, passeggiando per una strada del suo paese, incrocia  un ambulante, nell'atto di promuovere uno spettacolo itinerante di burattini.
Geppetto, guarda affascinato, attraverso le sbarre della carrozza, quelle sagome di legno vestite di tutto punto, tanto simili alle persone come lui, ma migliori, seppur prigionieri.
Pervaso dall'estro dell'ispirazione, giunge alla bottega di Mastro Ciliegia per chiedere legno da poter lavorare. Un legno incantato, che lo stesso Ciliegia, intimorito, gli cede senza chieder nulla in cambio. Una materia unica dotata di volontà, dell'alito della vita, alla quale l'uomo dona una forma: quella di un bambino. "Il mì figliolo", come lo chiama Geppetto, o ancora meglio Pinocchio, come decide effettivamente di nominare il burattino (senza fili).

Scena #1 La nascita
Il tronco di legno, ancora in lavorazione, prende vita improvvisamente alla richiesta del falegname di chiamarlo "babbo". Si tratta di un tronco con il volto di un bimbo, ma tanto basta all'artigiano di Benigni per sentirsi straripante di un amore paterno.
Una gioia infinita, della quale l'uomo si sente in dover di rendere partecipe tutto il vicinato. Descrivendo tanto spontaneamente la commozione di un padre che realizza di aver avuto parte attiva nella creazione di una vita nuova. Viene investito del suo compito.

"è nato un figlio. Son diventato babbo! Son diventato babbo! Auguri!"

Siamo di fronte dunque all'incipit della storia, alla sua nascita, quella di Pinocchio, ma anche a quella dello spettatore (ri-nascita) in quanto bambino.
Sappiamo bene a cosa ci stiamo approcciando. una storia intricata, allegorica, siglata da un forte contratto di fiducia tra autore e spettatore. La storia di un burattino di legno, si, ma anche di una famiglia povera, di una crescita
Un racconto, quello della crescita, nel quale se ti addormenti, se abbassi la guardia, ti ritrovi con i piedi carbonizzati.


"Ti prego papà! Fammi dei piedi nuovi!"


Una storia di padri...
E quale altro potrebbe essere il ruolo di un genitore se non quello di mettere in guardia un figlio ferito? Di insegnargli che il "fuoco" brucia e che il mondo è pieno di "fattori di rischio"?
Ovviamente quello di curargli le ferite, con la dedizione incrollabile che solo un padre o una madre possono dimostrare. Facendo la voce grossa, in primo luogo, per insegnare quanto nulla sia veramente dovuto e tutto s'abbia da guadagnarsi.
Sfruttando una regia ispirata e toccante, fatta di un comparto tecnico alle spalle di tutto rispetto, in grado di favorire doti attoriali, inquadrature espressive ed una colonna sonora dolcissima, Garrone mette in scena la lotta dell'innocenza con il Sistema-Tutto. Favorito da un altrettanto ispirato Nicolaj Brul, già presente, nel film Dogman, (dello stesso Garrone) nel ruolo di Direttore Della Fotografia (DOP).

"Si è mai visto un burattino senza fili?"


E sarà proprio questo burattino senza fili, senza filtri, a portare persino il terrificante Mangiafuoco (Gigi Proietti) ad un atto di pietà, quello di accontentarsi per una volta, in favore del prossimo.

"Allora vorrà dire che mi dovrò accontentare di mangiare un montone mezzo crudo..."


Viene dunque da iniziare a pensarci. Quale immenso dono ha fatto Geppetto a Pinocchio, donandogli forma. Dando alla volontà la possibilità di esser parte del mondo degli uomini senza appartenerne ai più bassi traguardi (ancora).
Un burattino senza fili, bambino per di più, risulta quasi un superuomo agli  occhi di chi ormai ha assorbito a pieni polmoni e ininterrottamente quel percorso che è l'affermazione sociale.. Un burattino senza fili, come un corpo senza organi, è  una forma che nella privazione trova la sua grazia, la sua "ragione", la sua bellezza e la sua crudeltà.
Libero dagli schemi di una società pesce-cane, ma allo stesso tempo obbligato a tuffarcisi dentro, per aiutare i suoi affetti. E proprio in rapporto al Simbolo di questa società moderna, ovvero il Denaro, compaiono peersonaggi come il Gatto e la Volpe ( Rocco Papaleo e  Massimo Ceccherini).
Manigoldi di professione, squallidi fino al midollo, colpevoli di aver voluto truffare l'Innocenza fin dal primo istante.


"Spizzichiamo?"


E da questo momento le scene notevoli si susseguono una dopo l'altra. Dalla malaugurata fuga di Pinocchio dagli assassini (Papaleo e Ceccherini) al periodo d'istruzione sotto l'ala del rigido Maestro (Enzo Vetrano) e della fata Turchina. Dalla spensieratezza di Lucignolo al dramma della trasformazione in asini con successiva schiavitù ed "esecuzione", legato ad un macigno e gettato in mare. Per poi giungere, come da copione, al ventre del gran Pesce-cane.
Scena #3
Il Pesce-cane
Una sequenza magnifica quella all'interno del pesce-cane. A cominciare dal breve, ma potente, dialogo di Pinocchio con il Tonno, personaggio chiave per lo sviluppo successivo, che come Geppetto ha rinunciato alla speranza di uscire ed attende solo di esser fagocitato da quel gran mostro, quel gran sistema naturale.
Una scena che trova il suo apice nella fuga di un padre e di un figlio dal ventre di un mostro.
Che mette in scena, nella sequenza di fronte all'oceano, nel palato del pesce-cane, il pretesto per mettere a nudo l'uomo timorato (e timoroso), che ha dato tutto alla Vita e il giovane uomo che prenderà il suo posto.

"Pinocchio, io non so nuotare."
"Non ti preoccupare. Ci sono io che nuoto benissimo! E poi sono fatto di legno. Galleggio!"
"Lo so che sei fatto di legno. T'ho fatto io, Pinocchio! ma ti pare che un burattino come te, alto un metro e mezzo mi possa portar sulle spalle?"
"Babbo, io ce la farò."

A questa scena si collega la successiva. dimostrazione della determinazione del burattino, e di uno scenario naturale assolutamente magnifico.
Scena #4
Pinocchio e il lavoro
Usciti dalla pancia della balena Pinocchio e Geppetto sono stremati. Così, trovano una casa diroccata in campagna dove Geppetto resta a riposare e dove sarà compito di Pinocchio andare in cerca di denaro e viveri per migliorare la situazione del padre.
Prendersene cura.

Pinocchio continua, come noi nella Vita, ad immergersi sempre più in fondo, fino a trovare un lavoro, sempre uguale da svolgere, come girare un torchio per far uscire dell'acqua da un pozzo. Eppure Pinocchio è felice, perché quel torchio non è solo un lavoro ed il denaro che guadagna non è solo guadagno. Quei denari, tanto bramati dai truffatori che sempre esisteranno, sono cultura, tanto sfuggita a Lucignolo, e miglioramento della salute e della condizione sociale (come per Geppetto). Non sono mezzi per raggiungere un bene di consumo, ma una forma di miglioramento della vita per la vita.

Notabile altrettanto la scena del tribunale:

"In questo paese gli innocenti vanno in galera."


Insomma, nel complesso un film, un trattamento autoriale, di tutto rispetto nella  risma di trasposizioni dell'opera di Collodi.
Scenografie ineccepibili,visionarie, ed uno studio della luce che, a detta dello stesso Garrone, ha voluto strizzar l'occhio all'Arte dei  Macchiaioli, trovando la sua ragion d'essere in una storia tanto antica quanto moderna.
Estetico, ma anche denso di significato. Un viaggio da affrontare cercando di staccarsi dalle  premesse di una vita già bella che affermata (nel bene nel male e nel mezzo). Lontano da quella solidità che è solo un'illusione. Che sprona ad esser più bambini, o ancor meglio, burattini senza fili.
E lascia ai bambini il compito di essere se stessi, fino in fondo. Anche perché essere un bimbo vero, vivente e finibile, o pensare di desiderarlo, è il giusto pagamento per questo grande investimento che è la vita e le sue responsabilità ( da non confondersi con gli  obblighi sociali!).
Eterna virtù.

Dovessi dargli un voto sarebbe sette e mezzo. Anzi, forse anche otto.



P.s: Non  ho  nominato il  personaggio della Fata Turchina, essenziale per la  storia quanto  tutti i personaggi che le ruotano intorno.Interpretato dalla bellissima Marine Vacth. Una parte della crescita di Pinocchio che trova il suo culmine nella consapevolezza che i burattini non possono crescere mai, mentre la fata nel tempo è diventata da bambina
ad adulta.

mercoledì 25 dicembre 2019

Senza capo ne coda presenta: "Mitra e cerume - Un racconto di Natale"


Mitra e cerume


- E quindi... - *GULP* Il rischio di aver la gola secca era stato prevenuto. La bocca senza nome continuò...
- ...ora che hai intenzione di fare? -
- Ora? - rispose la seconda bocca.
- Iiiiih...- sibilò una terza.
Stando seduti  alla vigilia di Natale, Korev e Gatti, placidi come ombre, si scambiavano reciprocamente il regalo della presenza.
Illuminati appena dalla tenue luce di un’uscita di emergenza, immersa nell’ombra di un vicolo scuro, dove ogni cosa era cosparsa da una sostanza gelatinosa e giallognola.
Seduti, molli, su quel che sembrava un grosso sacco di patate, ma che a ben guardare non era che un uomo panciuto, in camicia e bretelle, con un foro in mezzo alla fronte, i due fumavano.
Ed allo stesso modo, lo stesso fumo, perpetuo ed etereo, sfuggiva da quel foro di proiettile perfettamente centrato  in mezzo ai due  incavi vuoti che erano stati gli occhi del ciccione.
Anche quel corpo era ricoperto di gelatina giallognola.
- Ora. ora... - La voce ambigua di Korev continuò.
- Ora... -
Piegò appena il collo in avanti e il volto apparve, finalmente chiaro, come un incubo carezzato da riflessi al neon. I piercing sul naso e le orecchie brillarono fatui, come anche i suoi denti metallici, appena visibili dalla fessura delle labbra.
- Ora! - sussurrò Gatti, il suo compagno, da sotto la sberiola.
- Ora! - ripetè Korev con lo sguardo perso nel vuoto di quell’istante. Mentre le lucide pupille riflettevano forti grida appartenute a popoli antichi, ora in pasto alle fiamme infernali.
Un istante nel quale ogni cosa divenne musica. Quella stessa musica che tu, lettore, puoi solo immaginare leggendo queste parole. La “Marcia Slava” di Tchaikovsky.
L’altro individuo non fiatò, ma si sporse anch’egli verso la stessa luce. Aveva il fisico di un sedicenne, con il volto, però, di un uomo ben adulto, sul quale andavano a delinearsi tante rughe da rassomigliarlo più ad uno Shar Pei adulto che ad un uomo.
Beh, comunque...
Luminosi, ardevano occhi sporgenti, dalle iridi verdi come vetri d’uranio, coronati da eyleiner e da ciglia ben tenute.

Va ben precisato che benchè questo sia un testo scritto, nel quale è impossibile stimolare il senso dell’olfatto, il tanfo di quel luogo, e di quella gelatina giallastra, erano così forti che se ora stai percorrendo il sentiero di questo paragrafo, lettore, ti converrebbe tappare il naso e trattenere la nausea.
Sapendo che i due individui, Korev e Gatti, non avevano alcuna intenzione di andarsene via.

- Ora cambierò vita. Me ne andrò. Voglio dedicarmi a qualcosa che mi renda libero e goder della  gioia  di quel sentimento... - disse Korev.
Silenzio.
- Ma non ti sembra un po’ riduttivo? Definir la libertà come un sentimento? Così e basta... - seguitò Gatti, con tono neutrale.
- E  perchè mai dovrei. Cos’altro dovrebbe essere la  libertà se non uno stato transitorio. - Alzò la voce Korev.
- Maledizione! Mi sono dimenticato cos’altro volevo dire! Grazie, continua pure ad interrompermi tu! -
Gatti non parlò, ma abbassò lo sguardo mugugnando flebilmente.
- Ok, dai. Ci riprovo... - disse Korev, sicuro.
- Voglio chiudere questo capitolo. L’arte stupida e borghese. Questa forma di moderna affermazione. Questa tracotanza di pensiero, di verbo. Queste forme, tanto fascinose quanto senz’anima, come il Cinema, il Fumetto, la Fotografia. La Letteratura. -
Gatti si sentì di controbattere. Poi ci ripensò. Era più curioso di vedere dove il compagno voleva andare a parare.
- Desidero si, propormi con questi “mezzi”. Ma solo in quanto gli unici. I soli, dai quali è innegabile  che la Storia abbia avuto di che attingere.-
- E vice versa. - un attimo  di silenzio.
- Ah, la Storia. - continuò Korev, ispirato - Che vile puttana...-
- Hey!- proruppe Gatti, non tanto infastidito dal senso di Korev, quanto dall’uso imprevisto del termine “puttana”.
- A volte mi chiedo sai, quanta gente fa le cose che fa, bravi, non bravi, geniali, idioti...Con il pensiero e con il corpo...e chi senza...-
- Cosa intendi?-
- Intendo dire che è difficile,...ma io voglio riuscir a farlo senza! - sancì Korev con voce quanto mai determinata.
- Voglio realizzare, non tanto me, non tanto le persone intorno a me, non tanto un cazzo di niente, quanto l’attimo. -
- L’attimo...? - Chiese Gatti.
- Si, Gatti, l’Attimo. - piantò Korev.
- Voglio realizzare qualcosa di puro, di fuori  dal tempo. -
- L’attimo cos’è se non questo. -
- Si, l’ho visto anch’io quel film dell’Attimo che fugge, e bla bla...-
- Aspetta, no. Aspetta! Non parlo di quello. O meglio, non solo.-
- Vorrei riuscire a trovare la formula. Del “Corpo senza Organi”, ecco... -
- Del cosa? - disse interrogativo Gatti.
- Del maledettissimo CsO. L’elemento che mi piace pensare impossibile da definire. Libero dalle definizioni, almeno lui. Ma che ogni tanto, per qualche fortunato, diventa l’ispirazione, elevazione. La perdita di tutti gli schemi che ci obbligano, non so, a disengare in un certo modo o...ad usare tutta quella finzione nel Cinema. A scrivere come hanno già scritto altri prima di noi. A sottostare... - Gatti attese che giungesse l’accusativo della frase ma così non fu.
- Ad essere vittime. Vittime del presente e del passato...Fatti per creare, di conseguenza, vittime del futuro... -
- Oh, cazzo... -
- ...Vittime di un sistema non scelto, di un’etica, di una filosofia, di un senso estetico e di un’Arte e di una critica. -
- Io voglio l’illimitato. O almeno, come tutti, un illimitato istante. - E ancora - La Storia è solo il modo attraverso il quale diamo uno ordine alle cose. Tzè! “Ordine”...  La storia è il tempo. E il tempo è fascismo... -
Gatti taceva.
- ...cerebrale. Fascismo scientifico. Fascismo storico. Fascismo socio-culturale. -
- Non saremo mai degli stronzi liberi da questo, ormai è chiaro. Ma possiamo comunque intercettare alcuni attimi, in quella  farsa che è la vita “storica”, lineare, che ci siamo convinti essere l’unica ad esistere. Ed io voglio fare del mio, giunto fin qui, per dilatare quest’attimo. -
- ...Per trasmetterlo, come energia. Contaminandolo, ahimè, con  tutte le Arti...false e borghesi. Pronto ad accollarmi l’incomprensione delle masse e l’Odio delle false élite. - sospirò rabbioso Korev.
- Proprio per  quello esiste l’Essere no? Per essere demolito.-
- Ad ogni modo...Con molte meno parole di ora, ecco.-
- Ci sto ricamando sopra fin troppo. Porca...- Korev si censurò.
*PUAH*
Lo sputo raggiunse la melma giallognola sul pavimento assorbendo di molto il suono che ne sarebbe risultato in quello spazio silenzioso e venendo a sua volta assorbito.
- Iiiiih - si inserì la terza voce, per poi tacere.
Era il ciccione con le bretelle, decomposto ed immobile. Freddo. Con i bulbi oculari, privi di bulbi, nei quali sembrava che il nervo ottico avesse proliferato, trasformandosi in una pianta dal colore rossiccio.
Le cartilagini del naso, quasi completamente colate fin sotto la mandibola, sciolte, lasciavano nel centro del volto due piccoli fori umidi.
Ed ogni orifizio era cinto da una corona dorata di bollicine purulente e rossicce.
Le gengive in vista poi, sembravano cristallizzate nella melma gialla che le ricopriva, come dell’ambra antica o miele esotico.
Silenzio.
Gatti giocherellava con le mani pelose, mentre Korev, spento, aveva abbassato completamente il collo, illuminandosi la nuca e risultando completamente scuro in volto.
Finalmente, dal gialliccio pavimento cominciarono a prodursi delle bollicine dall’aria infetta. Una bizzarra ebollizione prodotta dal terreno e dalle pareti del vicolo. Quasi  come se la stradina stesse subendo  altissime temperature, fondendo.
Una natura di qualche genere stava tornando a popolare quel luogo, riempiendo di bolle e pustole lo spazio inanimato intorno ai due amici ed al ciccione.
- Oh, si...- disse languidamente Gatti, socchiudendo leggermente gli occhi con smorfia di gioia. O era piacere?
Una musica leggera aveva iniziato a farsi strada in quell’angusto viottolo. Prima degli archi, poi gli ottoni. Lentamente il suono si faceva più forte, così come anche le bollicine sembravano crescer sempre più prospere e copiose.
- Alla Natura, amico mio. - disse Gatti voltandosi a guardare Korev alla sua sinistra, agitando il braccio come ad impugnare un boccale di birra. O a dirigere un’orchestra?
-  Affanculo. - rispose l’altro senza muoversi di un muscolo.
Alcuni secondi passarono rapidi, nella tensione di una conversazione abortita e all’apparenza non conclusa.
Ancora. Silenzi.
Fino all’esplosione di una risata folle.
Tanto forte e sentita che i due iniziarono a trottare per via degli spasmi sul corpo del Ciccione decomposto che per uno strano effetto, dovuto anche alla crescita delle bolle sembrava ridesse con loro.
- Iiiih-iih-ih-
Infine Korev azzardò un altro pensiero, ancora in preda agli spasmi del riso, lottando per controllarsi.
- Dio...- s’interruppe ancora per ridere, con sottofondo di Gatti.
- Dio ch...ahahahah! - lacrimava.
- Dio cane. Non ne posso più. - concluse cambiando tono e rattristandosi un poco. Poggiando l’indice sotto le narici appena inumidite.
Gatti assentì.
- Già, neanche io. -
- Quando pensi arriveranno le Nazioni Unite a riprendersi questo qui? -
Fece tirando un colpo di tallone all’ammasso ormai putrido del ciccione.
- Spero entro le prossime cinque Fioriture. - rispose Korev sornione.
- Già. -
Gatti si accese una nuova sigaretta spandendo fumo oltre il suo naso. Perpetuo ed eterno, come quello che sbocciava dal foro di proiettile perfettamente centrato fra gli occhi di quel sacco di patate. Non aveva mai smesso.
Poco più lontano stava un tesserino voltato a faccia in su, con una piccola bandiera a stelle e strisce in un angolo in  alto a destra. Il resto era coperto da una grossa macchia di sangue rappreso, unta a sua volta dal  liquido ceroso di cui tutto era cosparso. Con un poco di difficoltà, caro lettore, avresti potuto  riconoscere il logo attorno al quale campeggiava una scritta:
“EXECUTIVE OFFICE OF THE PRESIDENT OF UNITED STATES”

Un gogoglìo si fece largo nella gola del ciccione, come un lamento.
Un sibilo,  ripetuto e sovrapposto a molti altri, che trovava origine in quel buio nauseante che era una bocca spalancata. Privata da tempo del suo grido pietoso, evaso e mai tornato.
Ma il suono, di mille sibili, continuava più forte.
Ancora ed ancora. Ormai insopportabile.
- Iiiihhh. - sembrava pronunciare quel poco che restava dell’uomo, mentre i due aguzzini, spariti dalla scena, presenziavano come coppie di stivali di pelle al fianco del corpo.
Poi successe.
Un denso riflesso di mare corvino, fatto di zampette e antennine, divampò dalla bocca di quello scheletro unto di grasso.
Erano centinaia e centinaia di avidi scarafaggi. Neri, lucidi, giunti portando con loro il suono dell’umanità stessa, schiumosa, frenetica e nauseante al tempo stesso.
Accompagnata egregiamente da una nuova overture, con le viole ed i violoncelli di una superba nona sinfonia di Dvorak.

Korev e Gatti sparivano lentamente nel denso fumo e nel forte suono di quegli sfregolii. Nell’odore putrido di quella sostanza infetta e nella trepida domanda se l’esser consci in un Sogno, somiglia tanto più che al sogno di viver coscienti.

Matteo Pigoli



giovedì 11 aprile 2019

[DUE PAROLE] NOI: Il rosso del sangue, il rosso della rivoluzione.

"Ho sempre simpatizzato per gli zombie, hanno un che di rivoluzionario. Rappresentano il popolo solitamente senza idee autonome che a un certo punto, stanco dei soprusi, si ribella. Eravamo noi nel ’68. E ora siamo morti, no? I nostri ideali sono morti, io sono uno zombie. Uso questa idea un po’ particolare e continuo a utilizzarla per fare delle istantanee dell’America, soprattutto del suo cuore profondo, quella che chiamiamo “Middle America”



A dirlo è George Romero, il regista de “L’alba dei morti viventi” per citare solo una delle sue tante e iconiche pellicole. A dirlo è un uomo che negli anni 60 ha visto, insieme alla  sua generazione, il marcio che si espandeva nella società americana. Una società fondata su ideali di Libertà, ma che concretamente è molto più simile alla  casa della famiglia Freelings, in Poltergeist di Tobe Hooper: costruita su un cimitero indiano. Una grande e potente nazione che sembra aver dimenticato le sue radici ed aver ricominciato da capo. Da zero. Ma in fondo sono solo i tempi a cambiare e il Dio del Massacro (prendendo il termine in  prestito dalla commedia di Reza) ha solo assunto nuove forme. Si è, per così dire, mascherato.



Jordan Peele con la t-shirt
della Monkeypaw Production,
da lui fondata nel 2012.
A parlarne non è certo la politica, l’economia. Non lo è la  sociologia o l’etica. A parlarne è ancora una volta la cultura popolare. L’espressione non elitaria, la forma d’espressione che trova il suo massimo nelle Arti. A parlarne è Jordan Peele, un attore comico statunitense di poco conto che però, nel 2017 si reinventa regista e manda nelle sale di tutto il mondo la sua  opera prima: Get Out. Un film dove la società perbenista americana viene messa a ferro e fuoco attraverso il Cinema, la settima arte, e ancora più nello specifico, la Black-Comedy e l’Horror-movie. Un successo tale da valergli un Oscar per la migliore sceneggiatura originale agli Academy Awards del 2018.

Ma veniamo a noi. O più precisamente: Noi ( Us, in originale). 

La storia racconta di Adelaide, una bambina normale che con  la sua famiglia sta passando una serata alle giostre nella baia di Santa Cruz. Peele delinea subito la  rappresentazione sociale del padre, un sempliciotto che preferisce giocare ad “Acchiappa la talpa” con l’entusiasmo di un dodicenne piuttosto che badare a sua figlia nel momento in cui la moglie deve allontanarsi. Nel suo piccolo, il nuovo modello di genitore che la società moderna ha “partorito”. L’inadeguato, l’uomo che magari neanche ha scelto di avere figli, ci si è ritrovato. E come tale, lo mal tollera, cerca l’estraneazione a tal punto dal barattare un po’  di divertimento infantile con il proprio senso di responsabilità, quasi inconsapevolmente. La piccola Adelaide, come da cliché, si allontana ed entra nella giostra degli specchi dove vede qualcosa di sconcertante, che le farà letteralmente perdere il fiato.

Stacco.

Sono passati trent’anni ed Adelaide è adulta. Nei suoi occhi il peso di quel che ha dovuto sopportare nella crescita, di quel qualcosa che ha a lungo combattuto e con il quale ha iniziato a convivere. Intorno a  lei una nuova famiglia, la Sua famiglia. Il marito Gabe, personaggio dallo spiccato humor, e i due figli, Zora e Jason. Una famiglia normale, in vacanza a Santa Cruz (esatto, Santa Cruz).

“Quando punti un dito contro qualcuno, hai tre dita contro di te.”

Questa frase, detta dal figlio più piccolo, Jason, è solo uno dei tanti  spunti di riflessione che Peele inserisce nei dialoghi dei personaggi. 

Ad ogni modo, la storia acquista sempre più suggestione quando Adelide (Lupita Nyong’o) ritorna sul luogo del suo trauma. Qualcosa non va, troppe stranezze, troppe coincidenze. Sempre più tensione fino alla sera quando, a casa, Adelaide svela  al marito ciò che aveva visto nella giostra degli specchi. La luce  salta. Il climax è palpabile e davanti al portone di ingresso compaiono quattro figure (s)conosciute, vestite di rosso. Un rosso acceso come solo il sangue che gronda da una ferita troppo a lungo aperta sa essere. 

“Ma voi chi siete?”

“Siamo Americani.”

Il livello allegorico con il quale Peele mette  in scena personaggi e dirige l’azione è pressoché impeccabile. La fotografia in notturna, estremamente scura e tipicamente carpenteriana, trasmette benissimo il senso di isolamento. Le riprese di giorno, se possibile, risultano ancora più efficaci. In un’eterna citazione a film come “Day of the Dead” dove il ritorno alla realtà, alla  sicurezza che dopo la notte tutto tornerà a posto, viene stroncato. La  realtà c’è, ma non è quella che ti aspettavi, devi accettarlo Adelide. Devi accettarlo spettatore. E più entri in questo vortice, più dimentichi quei  piccoli e forse inutili dettagli, che conducono lo spettatore al plot twist finale, concludendo una trama che, come i film d’altri tempi, non da tutte le spiegazioni, ma crea implicitamente un patto con lo spettatore, un tacito accordo di reciproca comprensione.


[SPOILER]

Il finale. 
Leggendo diverse recensioni e opinioni sul Web sono giunto alla conclusione che sia il punto più critico del film. 
Questo perché viviamo nell’epoca del film che deve spiegare tutto, e Peele questo lo sa bene. Probabilmente il regista ha introdotto lo “spiegone” finale tra Red e Adelide proprio per venire incontro a quel pubblico che, sempre più su vasta scala, non si accontenta di prendere un’opera per il suo messaggio e per il valore interpretativo ma che preferisce sentirsi coccolato, accompagnato, imboccato. Forse per paura di fraintendere, forse per sapere meglio cosa criticare.

Ma pensiamo all’ultima scena prima dei titoli di coda. 

In un film così allegorico non si può non pensare ai significati di una sequenza come quella in cui Adelide acquista coscienza su chi è veramente e guarda con "complicità" il figlio Jason. Ma chi è Adelaide/Red? Ella è la rappresentazione della società nascosta, tanto nascosta da esserlo alla luce del giorno, della fusione dei vecchi valori del “massacro” e di quelli della società capitalistica moderna. E chi è Jason? Il figlio di questi valori, il bambino ingenuo, più libero da preconcetti. Non a caso il legame tra Jason e il suo alter-ego è il più forte, a tratti speculare. E cosa fa Jason quando si rende conto di ciò che è sua madre, di ciò che lo ha prodotto e che nel bene e nel male si curerà sempre di lui? Indossa la sua maschera. Si copre il volto, lo fa come a liberarsi del peso della conoscenza di una terribile verità. Ma come lo fa? Con la maschera di un lupo mannaro. Un mostro. Il prodotto della società. Lo fa come se impugnasse uno scudo ma in verità diventa tanto più simile alla sua controparte malvagia che era fisicamente deturpata. Il vecchio e il nuovo. Il passato e il futuro. Collegati insieme da una catena umana lunga quanto un continente.


[FINE SPOILER]


Siamo tornati al cinema vero. Non a caso sono sempre stati i film comici a raccontare al meglio la società, proprio per la capacità intrinseca di non farsi prendere troppo sul serio. Un esempio su tutti, “La febbre dell’oro” di Chaplin o per essere più contemporanei la filmografia di Adam McKay (La Grande scommessa).

E così l’horror. Così Romero. Così Carpenter. Così Cronenberg. 
Non è un caso che registi capaci e istruiti scelgano questi generi per raccontarsi e raccontare. 

E allora lunga vita al cinema come manifesto di uno sguardo critico a ciò che siamo, che eravamo  e che siamo diventati. Lunga vita a registi come Jordan Peele e  all’orrore che rifuggiamo nella realtà di tutti i giorni, ma che cogliamo nella finzione e che, ogni tanto, ci fa gelare il sangue nelle vene.

domenica 7 aprile 2019

[DUE PAROLE] Dragon Trainer - "How To Train Your Kids"


 

"How to Train your Dragon". Letteralmente: "come addestrare il tuo drago".

Drago...
Una fantasia presente nella maggior parte delle culture e frutto di miti e leggende. Simbolo per il cristianesimo, addirittura, del Male, di Satana in persona.
Drago.
Una creatura serpentina e in grado di incutere timore,  per maestosità e per l'alone di mistero che da sempre lo circonda. Drago....

Ma allora perchè è proprio un drago il protagonista di una saga tanto acclamata? Per il suo fascino forse, per il suo mistero. Forse anche perché i Character Design che si ispirano alle varie razze devono esser stati davvero divertenti da realizzare.

Ad ogni modo, nel 2018, sotto l'ormai assodata casa di produzione americana "Dreamworks" esce finalmente l'atteso seguito della  trilogia cinematografica ispirata al libro di successo per bambini: "How To Train Your Dragon" di Cressida Corwell, in Europa semplificato con "Dragon Trainer".
Molto mi aspettavo personalmente da questo terzo e conclusivo capitolo e molto so di avere ricevuto, ora che posso dire conclusa questa avventura "vichinga".
Forse non proprio quel che mi aspettavo però. Avevo preferito il villain del secondo film, Drago Bludvist, per la potenza del messaggio di critica che faceva passare attraverso le sue terribili azioni. Forse perchè  Hiccup e Sdentato erano ancora nella loro prima fase di  maturazione di "coppia".

Ma la verità è che come bene illustra il terzo capitolo stesso,  ogni cosa lascia il tempo che trova ed ogni rapporto cresce e si sviluppa inesorabilmente, per una ragione o per l'altra. Questo è quel che è arrivato a me, ma sicuramente non l'unico dei tanti messaggi del film. 
In particolare, come in ogni capitolo, il centro della narrazione vede i "Draghi" come archetipo della  Natura e del mondo animale. Una forza che l'uomo non riesce a fare a meno di voler controllare e dominare (in maniera "benigna" come gli abitanti di Berk o crudele  e senza scrupoli come i Signori della Guerra che affollano i mari con le loro flotte).


Come dicevo, ho preferito il crudele Drago Bludvist, del secondo film, ma anche Grimmel, il cacciatore di Draghi di F. Murray Abrham, non se l'è cavata affatto male. Ancora una volta un personaggio che incarna oltre misura una rappresentazione sociale che è sempre esistita: "il cacciatore". Una grande critica a un aspetto terrificante dell'essere umano.

Si, perchè Grimmel, non è un semplice cacciatore. E no, non mi riferisco al fatto che sia uno "sterminatore di Furie Buie" (la razza di Sdentato, per intenderci), ma è un cacciatore che, per usare le parole di Eret: "Caccia per il gusto di cacciare".
Trasforma insomma quella che era una antica pratica di tutti  i popoli che non avevano altro modo di sopravvivere se non quello di uccidere a loro volta, con l'ingegno e la tecnica, in una pratica  narcisista e spietata, un motivo di vanto a discapito di vite innocenti, per il semplice gusto di mostrare il proprio Dominio su chi è considerato inferiore.

Ho apprezzato molto i brevi flashback che hanno "riportato in vita" Stoik, il padre di Hiccup deceduto nel film precedente, ed ho apprezzato molto il concetto di "Mondo Nascosto".
Un mondo incontaminato, separato da quello degli esseri umani. L'unico posto dove i draghi potranno vivere in pace "in attesa che gli uomini imparino ad andare d'accordo". Assolutamente utopistico. Assolutamente stupendo.

[SPOILER]


Ma il messaggio che più mi ha toccato è stato quello del finale. Il passaggio generazionale, spiegato facendo addirittura sposare ed invecchiare il protagonista. Ma perché far invecchiare quello che fino a un momento prima era colui nei quale tutti i bambini e ragazzi si stavano rispecchiando? Perché le immagini da quel momento in poi avrebbero parlato da sole. E mostrando l'ultimo incontro, tra un ormai padre di famiglia, cresciuto raccontando ai figli leggende sui  draghi, ormai svaniti nel loro stesso mistero, e il suo eterno inseparabile compagno vediamo, e a tratti tocchiamo, quel ponte immaginario che collega tutte le generazioni fra loro e fa capire come i valori corretti, buoni, come il rispetto della natura e dell'Altro (per citare Levinas) vadano tramandati, come una leggenda, come un racconto...Perché in fondo è sempre stato così. 

Così come il protagonista aveva convinto il Padre a NON uccidere i Draghi, staccandosi da un insegnamento sbagliato nel primo film, così, l'insegnamento giusto, tramandato, verrà percepito dai figli nel terzo.

[FINE SPOILER]


Questo alla fine è Dragon Trainer, "How to train your Kids", come insegnare valori che non possono non essere assimilati, specie nel difficile periodo che stiamo attraversando, ad una fascia di età ancora giovane e difficilmente in grado di sensibilizzarsi se non attraverso la cultura popolare.

Ed è facendolo così bene, con così tanta magia e fantasia, con gli occhi di un bambino che diventa adulto, che si raggiunge davvero un grande traguardo. 

Si torna davvero a chiedersi quando impareremo ad andare d'accordo...E quando i Draghi, finalmente, potranno tornare a volare con noi in un "Mondo Nuovo". 



Grazie Dragon Trainer. 



mercoledì 12 settembre 2018

DEVILMAN Crybaby: Un piccolo gioiello di animazione giapponese nel marasma delle produzioni Netflix


 
Non scrivevo un post da davvero un sacco di tempo eppure stavolta non sono riuscito a trattenermi.


La storia è sempre la stessa. I demoni esistono e sono fra noi e il giovane Akira Fudo, ragazzo mite e dal carattere empatico, si fonde disgraziatamente proprio con uno di loro. Più precisamente Amon, il "campione" della sua razza. Un demone dalla straordinaria forza (per non parlare del character design), agilità e crudeltà, conosciuto, temuto e venerato tanto dagli uomini quanto dai suoi simili.

E proprio qui abbiamo  il primo punto interessante (anche se a molti potrà sembrare banale, ma  ragà, il Manga c'ha i suoi bei 46 anni), perchè il povero Akira Fudo, viene sì posseduto da un demone, con arti caprini coda e ali da pipistrello, ma conserva immancabilmente il suo cuore da essere umano. Lo stesso  cuore che non gli permette di restare a guardare di fronte alla crudeltà, questa volta dei suoi simili umani manifesta in atti di bullismo, fanatismo o razzismo. La voce di Akira è la voce di  ognuno di  noi che spinge alla lealtà, ad un ideale di giustizia non tanto  legale quanto etico. L'opera di Go Nagai ha toccato ogni argomento scottante della sua epoca con grazia e poetica, ma anche con crudeltà e cinismo.
E volendo vedere, in fin dei conti, si tratta degli stessi problemi, all'epoca estremizzati, che non abbiamo risolto in 50 anni.


Ma  lasciando la filosofia dell'opera in sè da parte, l'opera di a Maasaki Yuasa stupisce per ben altro.
Sia il lavoro  di regia che di direzione artistica, infatti, mi hanno personalmente colpito dal  primo momento. Le tinte piatte, appena sfumate per rendere ombre  e luci, e i colori di palette che vanno dal pastello delle ambientazioni di giorno ai neon notturni delle discoteche regalano una scelta visiva non proprio "standard" e quindi solo apprezzabile. La fluidità dei  movimenti, le orripilanti trasformazioni che potrebbero rendere fiero un David Cronenberg al meglio della sua forma e lo stile di disegno, da molti su vari blog denigrato in quanto "assurdo" e "sproporzionato" che ad alcuni addirittura è parso "grottesco" per me è stata solo parte gradita.
Momento Cronenberghiano.
E ultima, ma decisamente non ultima la colonna sonora assolutamente perfetta. Mi ha ricordato a tratti i temi di "Devil May Cry 3" nel suo stile disco-dark dal sapore profano nei momenti di massima crudeltà visiva per poi concedersi ampie boccate di dolcezza e sentimento con il tema portante di piano ( episodio 9, veramente straziante).

Per il resto che dire...Un ritmo incalzante fin dalla prima puntata, quella della trasformazione di Akira, che mette subito in chiaro una cosa: non aspettatevi un anime buonista o dove gli eroi trionfano per il semplice fatto che la loro volontà è più forte di quella dei loro avversari. Aspettatevi di tutto, aspettatevi un'opera che farà veramente incazzare, che farà tristemente riflettere e che farà davvero commuovere,  anche gli  animi più stoici (non sto scherzando affatto).

Tako, resti il mio preferito. Da gatto e da Devilcat.
Devilman è un elogio all'empatia, quella vocina che spesso soffochiamo per paura o per disinteresse. Lo strumento così potente e in grado di accomunare tutti e di cui spesso dimentichiamo l'importanza per sentirci erroneamente più forti. Ma sta proprio in questa empatia la forza di Devilman, un essere dalla forza straordinaria e brutale, a cui nulla impedisce di dimostrarsi superiore, ma governato da un cuore puro e sincero pronto ad affrontare qualsiasi cosa per proteggere le persone a lui care e la bellezza che c'è nel mondo. Non serve che ne parli ulteriormente io, basteranno poche immagini ad esprimere tutto quanto. Come la scena riproposta rispettivamente all'inizio e alla fine della serie di Ryo e Akira con il micino morente o il combattimento con i  due demoni Silen e Kaim. Il messaggio di Miki sui social per sensibilizzare il mondo sui Devilman o la triste storia della famiglia Makimura ( roba che chimere di FMA levatevi).


"Un demone può provare Amore?"

Difficile è per me andare oltre senza fare spoiler. Posso solo dire di aver amato questa nuova trsposizione del capolavoro di Nagai e di averci sofferto veramente tanto. Spero di vedere al più presto qualcosa di nuovo di Maasaki Yuasa che sicuramente ha superato ogni più rosea aspettativa e concludo con una citazione dalle parole di Ryo Asuka con la quale si apre il primo  episodio:





"L'amore non esiste, quindi neanche la tristezza esiste."







giovedì 14 dicembre 2017

AT WORLD'S END - "Facciamola finita" o andiamo avanti meglio di prima?

Data stellare: 14 dicembre 2017. Sono passati due mesi  dai miei 25 e posso finalmente vantare un nuovo strumento di disegno digitale, La Huion 220, presa su  Amazon prima di passare a "Prime". Un po' di novità in effetti ci sono state a ben pensarci. Il suddetto schermo tablet fighissimo, il materiale da scultura  (creta, aggeggini che  non so come si chiamano etc...), le serie di Netflix che solo ora mi rendo conto di non aver più concluso come "The Punisher" e "Mindhunter", l'ingresso in Prime video, spinto dall'incredibile curiosità di vedere The Man in the High Castle, la serie tratta dal libro capolavoro di Philip K. Dick:"La  svastica sul sole". Ma anche Preacher, Mr Robot e una seconda mano di American Gods che non fa mai male. Tutto questo condito con il fatto che finalmente sono riuscito a prendere in mano un libro "Il Grande Gatsby" di Scott Fitzgerald (E  scusate se è poco!) che mi ha rilanciato nel mondo della lettura da cui mancavo ormai davvero da troppo, troppo tempo.

Tutto questo e...Hey! Sto anche andando  all'Accademia di Belle Arti a Brescia. "Santa Giulia"  per essere precisi. Corso di Grafica 1 A, per essere minuziosi.

Si, ecco...oltre alle mie vicende personali, di cui questo blog non è certo lo specchietto, la questione Accademia è forse l'argomento più ampio di cui trattare, ma non intendo in nessun modo dilungarmici. Ho conosciuto tanti nuovi personaggi ( "personaggi" della vita vera,  perché se fossero persone e basta sarebbero noiosi), tra professori e studenti, compagni di corso e vecchie conoscenze...Tutta gente che in qualche modo sente di potersi imbarcare in un mondo così saturo e altalenante come quello artistico quasi fosse un gioco. Oddio, lo è. Per me di sicuro, da  un certo punto di vista. Le lezioni sono carine, gli argomenti al più intriganti e utili. Spesso  nulla di nuovo ma c'è anche da dire che non sono in Accademia per conoscere chissà cosa di nuovo. Ho avuto 3 anni per esplorare ogni possibile meandro di photoshop, quel che mi serve sono scorciatoie o canali nuovi verso cui portare le mie abilità.
La vera novità sono programmi come Illustrator, di cui mi sono perdutamente innamorato, o In Design. La vera chicca sono i compiti del prof di Storia del Design Grafico, Alessandro Valente. ( uno dei personaggi fin'ora più incisivi dell'intera Accademia). O gli esercizi del professor Chiarini, al lunedì, nei quali si viene spronati a mettere la tecnica a servizio dell'ispirazione personale ( o vice versa) a favore di ogni possibile capacità personale, per stupire e differenziarsi.

Potrei andare avanti anche troppo ora...ma mi fermo qui.
 Magari un giorno mi sentirò abbastanza in vena da dedicare altre parole  ad altri campi di questo medesimo argomento.

Ah, e per chiunque pensava avrei parlato del  film di Edgar Wright o di quello con James Franco, Jonah Hill e compagnia  bella...
Ma sul serio??? Sono passati almeno 5 anni da ciascuno e dovrei parlarne ora così, a caso? Era sono una metafora perché sta per finire l'anno, suvvia. Una citazione, mettimola così...ma se ha aiutato a far aprire questa pagina tanto meglio...



Allego per concludere la mia esercitazione di Illustrator per il  professor Mutti non conclusa ahimè con trama sfumata e pressapochista nelle precedenti...ma tant'è.




E se c'è spazio anche il mio ultimo video del canale Youtube fantasma che gestisco con speed painting vari...Ehhhhh...che merda fare l'artista... =___=

("artista")
https://www.youtube.com/watch?v=ZkzpJKtwov8